
Ieri sono stato ad un funerale.
Non il primo a cui vado. Ma fra le molte funzioni con cui salutiamo le persone a noi care, è stata la mia prima volta al funerale di un pilota.
Quest’uomo, di cui non sapevo nulla se non le storie raccontate dalla voce di sua figlia, mi ha molto spesso ricordato mio padre.
Ieri, in un pomeriggio così caldo da soffocare, ho varcato la soglia della chiesa e mi sono messo tra i banchi laterali, al riparo dalle “luci di scena” che spesso accompagnano il mio essere in sedia a rotelle.
Senza che l’avessi scelto mi sono ritrovato a guardare la bara in legno chiaro del pilota, che se ne stava al centro della navata con il suo cappello blu scuro, appoggiatovi sopra.
Non chiedetemi perché, ma per quanto mi sforzi in occasioni come queste, faccio davvero fatica a focalizzarmi sul presente. Che sia un disturbo dell’attenzione mai diagnosticato, o un meccanismo di protezione del mio cervello che si attiva in presenza della morte, durante i funerali mi trovo spesso a lasciar correre i pensieri.
C’ho provato ad ascoltare, ieri. Ricordandomi che a questo pilota così caro a tante persone, avrei dovuto prestare più attenzione.
Mi sono concentrato sull’omelia del prete e su quel cappello blu scuro, pensando che il pilota che l’aveva indossato fino a poco prima, di cieli ne aveva solcati tanti.
Mi sono chiesto se avesse mai pensato che un giorno, su quel cappello, si sarebbero posati i miei occhi.
Mi facevo queste domande e, fissandolo, sembrava quasi che ricambiasse allo stesso tempo il mio sguardo, e quello di tutti gli altri.
Poi l’organo ha iniziato a suonare, e le persone si sono alzate.
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